“Occidente, un’impostura ideologica” di Terza Roma

settembre 25, 2009

L’11 Settembre 2001, con la tragedia del World Trade Center, si apriva una nuova era, quella del presunto “scontro di civiltà”. Nel periodo successivo all’attentato, complici i media americani ed europei nella loro quasi totalità, si cominciò a delineare insistentemente la nostra identità come un unico blocco monolitico, costituito da Europa – Russia esclusa, tendenzialmente – e USA (con annessi, all’occorrenza, i vari paesi di cultura anglosassone disseminati in giro per il mondo). Un blocco unico che gli ideologi neocon vorrebbero in contrasto naturale con tutto il mondo islamico, che a sua volta viene spacciato come monolitico. I paesi islamici, secondo questa vulgata, sono l’antitesi dell’Occidente – la parola magica – in quanto oscurantisti, maschilisti, teocratici.

Va detto che talvolta, come nemico mortale dell’Occidente viene citata la Cina, quando non addirittura la Russia, con la quale l’Europa occidentale condivide senza alcun dubbio una cultura ed una religione (va sottolineato anche che per il Cattolicesimo l’Ortodossia è soltanto scismatica, mentre il Protestantesimo è eretico). Di volta in volta il nemico cambia, ma le accuse sono sempre le stesse: regimi autocratici, liberticidi, comunisti, fascisti e chi più né ha più né metta.

Va chiarito, comunque, che da un punto di vista culturale si potrebbe discutere dell’esistenza di un “Occidente”; ma che tuttavia – e questo va tenuto bene a mente – un’identità in parte si riceve in eredità, ma in parte si sceglie e si afferma volontaristicamente. Se le cose stanno in un certo modo, quindi, non è un buon motivo per voler mantenere lo status quo a tutti i costi. Niente, se non la rassegnazione a servire o l’adesione a quel modello, ci lega culturalmente ai paesi anglosassoni, USA in primo luogo.

Ma questa parola magica, “Occidente”, è prima di tutto un’arma culturale: significa che “noi siamo i buoni”, quelli della libertà, dei diritti umani, del rispetto delle donne (e già di questi argomenti di potrebbe discutere a lungo, ma non è questa la sede).

Rappresenta una concezione superficiale della nostra identità. Non è che la parte peggiore delle società “occidentali”, quella che unisce effettivamente l’Occidente: quella delle puttane in televisione, dei matrimoni omosessuali, della corruzione morale, del razionalismo, dell’ateismo, delle stesse mode e sottoculture giovanili completamente idiote, distruttive ed omologanti diffuse da Los Angeles a Milano.

Ma attenzione: il giochetto dei media “occidentali” è semplice quanto astuto. Si tratta di identificare il piano culturale con quello politico, per far così intendere che siamo un’entità unica; se facciamo una guerra la facciamo insieme, perché siamo un’unica cultura. Peccato che il piano culturale non coincida minimamente con quello politico, e che quindi le guerre in Afghanistan e Iraq (il paese più laico del Medio Oriente, che gli USA sostenevano fosse alleato di al-Qaeda) non avessero motivo di vedere la partecipazione dell’Europa, e soprattutto dell’Italia, la quale – come dovrebbe essere noto – si estende nel Mediterraneo, e necessariamente deve intrattenere buoni rapporti con i paesi islamici che vi si affacciano. O almeno così dice la logica. Sì, perché questa è la clamorosa rivelazione: i singoli Stati non combattono guerre per “liberare” (massacrando i civili sotto i bombardamenti, poi) i popoli oppressi. Non esistono Stati filantropi. Gli Stati combattono per fare i propri interessi in ambito geopolitico, economico, energetico e quant’altro; oppure, in alternativa, perché sono servi di altri Stati. Questo è il nostro caso: non siamo andati a combattere per la libertà, non per demolire le centrali del terrorismo islamico (questo, al limite, è un obiettivo secondario), ma intanto questo è ciò che continuano a raccontarci. L’Occidente, la libertà, “Siamo tutti americani”… Tutte astrazioni, slogan, idiozie prive di significato.

L’Occidente non esiste. Esiste solo l’Italia ed esistono i suoi interessi, che corrispondono a ciò che per essa abbiamo in mente. L’Italia è un progetto, e questo progetto non deve più contemplare l’ovest, dove il Sole muore. Ritorniamo a Oriente, sulle orme dell’avventura che è l’archetipo della storia europea, quella di Alessandro il Macedone; così riscopriremo noi stessi.

“La Russia tra Stato-Impero e Stato-Nazione” da Rinascita

settembre 25, 2009

La fine dell’Urss ha attraversato le sale delle cancellerie, delle diplomazie e degli ambienti intellettuali come un evento tra l’inevitabile ed il sorprendente, aprendo uno squarcio nello scenario geopolitico mondiale di enorme portata. Tale fine si riteneva inevitabile nell’ottica di un giudizio fondato sull’analisi del comunismo sovietico come esperienza storica comunque votata al fallimento – oppure recante in sé degli elementi di subalternità al polo nemico statunitense, tali da non potersi più permettere la rincorsa verso la meta di un apparato atomico più elevato e una contesa territoriale e delle influenze ormai già compromessa, con la debacle afghana e la Prima Guerra del Golfo che segnava la partenza delle nuove prospettive egemoniche americane. La stessa perestroika di Gorbaciov nutriva al suo interno i germi della caduta, una caduta non solo di una Russia artefice della propria implosione ma anche nata dalla sapiente opera di mani esterne.

Per intendere, invece, quanto sia stata sorprendente la fine sovietica occorrerebbe tenere in conto che in molti immaginavano un processo riformatore che avanzasse verso un disegno politico più aperto, che altri la attendevano sì, ma non all’improvviso e nelle forme repentine in cui è avvenuta. Però, se per alcuni ha prevalso il fattore sorpresa, per altri si è trattato di aver azzeccato più o meno i calcoli, soprattutto per coloro che avevano predisposto nel tempo le mosse giuste, affinché l’esito fosse quello non solo sperato bensì designato.Il punto nevralgico, lo snodo argomentativo si riflette, però, in una considerazione: la fine dell’Urss è la caduta della Russia, ma la caduta della Russia non è la sua fine.
Con un ribaltamento maturato negli ultimi anni non solo a livello istituzionale quanto soprattutto sul piano più strettamente geopolitico, l’Orso russo ha deciso di rialzarsi e di rimodellarsi, di spezzare catene che sentiva estranee e di tracciare una nuova via nella storia, innanzitutto nella propria, ma per di più in quella di un mondo che pare tendere verso un ordine multipolare.
Le svolte si rivelano nei fatti ma anche nei volti dei personaggi che li determinano o li guidano, e quello di Vladimir Putin è il volto simbolo del ritorno della Russia.
Dalle parti dell’Occidente filtra troppo spesso un’informazione settaria e fuorviante dei fenomeni che si sviluppano altrove, sia per una forma mentis autoreferenziale che non ammette la ricezione delle diversità ma mostra diffidenza o direttamente esclusione, sia per una certa strategia, per esempio mediatica, strumentale a determinati interessi e manovre. Con troppa faciloneria si dipinge l’apparato di potere russo come una cricca di oligarchi che grava sulle sorti del suo popolo e l’uomo forte al comando come un autocrate affabulatore che non lesina metodi cinici e spietati. Verrebbe da evidenziare che un tale parametro di valutazione poco giudizioso e molto ideologico è ormai abusato e logoro, specie se i pulpiti cui fa capo non brillano sul terreno della virtù e dell’etica, ma casomai su quello della morale che in questo caso è doppia. Putin e i suoi uomini non sono semplicemente un’emanazione dell’ex KGB atta alla prosecuzione di un potere autoreferenziale e autoritario tout court, ma incarnano delle linee politiche russe con riferimenti e radici molto datati ma che rappresentano una costante zarista-sovietica. Nella nuova Russia non ci sono uomini che vengono dal nulla o uomini solamente ansiosi di una nuova collocazione nella burocrazia o nel mondo degli affari dopo anni di squilibrio ed incertezza.
La base su cui si poggia l’operato del Cremlino è molto più politica di quanto si possa credere. Sarebbe erroneo ritenere di avere a che fare semplicemente con un irrinunciabile partner strategico che vuole legare le nostre sorti alle sue fonti di approvvigionamento. Una miriade di gruppi politico-culturali, che all’occidentale definiremmo lobbie, sta ridisegnando gli ambiti di gestione del potere e un nuova prospettiva geopolitica per una Russia che debba muoversi nello spazio come attore protagonista. Affermano che il tempo delle comparse è finito, che quello dell’impero non è un fantasma ma un processo in itinere. L’edificazione di una nuova gestione del potere, il recente balzo economico, l’arma potenziata delle risorse energetiche, i rinnovati progetti militari, le nuove traiettorie di politica estera trovano le proprie ragioni non nell’estemporaneità di un’azione politica quanto piuttosto in un progetto geopolitico che, seppure fra intoppi e contraddizioni, viene eseguito. E’ bene sottolinearlo: non sarà una terza via, ma è uno strappo considerevole nell’attuale dimensione globalista.
Uno degli aspetti da valutare relativamente al nuovo corso della Russia è quello di una visione imperiale che al proprio interno sviluppi un modello democratico.
Partendo da alcuni presupposti: che l’Impero non implichi automaticamente una concezione di tipo autoritaria e negativa, distinguendosi quindi dalla definizione di imperialismo; che la democrazia da realizzare non abbia le peculiarità di tipo occidentale, ma percorra una via propria nel solco della tradizione identitaria di un Paese che si sente a cavallo tra Asia e Occidente e non vuole lasciarsi racchiudere in definizioni secondo parametri di rilevazione estranei alle vicende storiche e ai fattori culturali che lo caratterizzano.

La dimensione imperiale è una costante storica russa, è strettamente correlata alla consapevolezza di essere un’entità nello spazio geografico e di attribuire a tale spazio, nello stesso tempo, un valore non meramente geografico ma di identità e di volontà. Si potrebbe configurare la triade stato-volontà-impero come forza motrice della geopolitica russa. Alla base riscontriamo delle peculiarità quali la statalizzazione del territorio, il centralismo, la particolare valenza delle frontiere esterne ed interne, la composizione multietnica, multinazionale e multireligiosa, peculiarità che evidenziano la diversità e la specificità della Russia, senza le quali essa non avrebbe più da essere un impero. E senza essere impero smarrirebbe se stessa, il suo modo di stare al mondo, di immaginarsi al proprio interno e in relazioni con gli attori esterni. Inevitabilmente la vastità e la contiguità del suo territorio hanno imposto una gestione secondo delle linee guida che hanno varcato i secoli e che presentano la fondamentale esigenza di adattarsi ai tempi. Al variare del tempo non può non corrispondere una variazione di se stessi nel proprio spazio. E le forme di questo necessario riadattamento, sostengono negli ambienti politico-culturali russi, devono essere frutto di un processo non forzato ma elaborato, non imposto ma condiviso nel solco del proprio cammino storico.

Da qui, dunque, il modo di rapportarsi alla democrazia. Non seguendo i criteri liberali e progressisti dell’Occidente che hanno determinato nel Paese una drammatica situazione di disgregazione e impoverimento nel periodo di Eltsin, ma portando alla luce una nuova gestione del potere che tenga conto della irrinunciabile commistione tra spazio e diversità come fattore di identità.
Non possono più accettarsi i parametri politologici e sociologici dettati da centri di pensiero e di pressione degli occidentali e in particolar modo degli americani. I russi pretendono che si riconosca una loro via alla rappresentanza democratica come una loro risposta alle istanze della modernizzazione.
Una tesi fondamentale è quella della “democrazia sovrana”, elaborata dalle elite del potere e che vede tra gli artefici uno ideologo di punta come Vladislav Surkov. Una precisa volontà anima questa tesi: riconquistare e riorganizzare la propria sovranità. Dopo la democrazia di rapina, la Russia deve ritornare ad essere padrona del suo destino e dei suoi mezzi per attuarlo. Il periodo di gestione eterodiretta e americano-centrica l’aveva privata della facoltà di decidere e affermarsi, legandola allo strapotere degli oligarchi russi e non, soggiogandola alle direttive del FMI e della BM, portandola verso la dissoluzione delle strutture statali con le privatizzazioni. Il rublo era come polverizzato e il popolo in ristrettezza economica. Il risultato è stato una Russia depotenziata e prossima a divenire un vuoto geopolitico che nulla più potesse contare sullo scacchiere globale. Mentre, evidenzia lo studioso Eduard Batalov;
“In Russia lo Stato viene considerato come spina dorsale della civiltà, come garante dell’integrità e dell’esistenza della società, come ordinatore della vita anche economica. Una tale considerazione è stata il riflesso, sebbene in forma un po’ ipertrofica, del ruolo reale dello stato in un paese dotato di specifici requisiti geopolitici e geografici e sprovvisto di una società civile” (Limes n.4/2007).
Verticalità del potere e della rappresentanza. La sovranità riconquistata mira a trarla fuori dal naufragio scaturito dall’ondata liberale, avvertita come tentativo di colonizzazione e sradicamento, causa di una lacerante scollatura tra le priorità del Paese e le istanze sociali del popolo. Non più una guida esterna, quindi, ma una verticalità del potere che ripristini l’autorità necessaria affinché il Paese sia guidato senza condizionamenti di attori statali, internazionali e privati. In questo senso Surkov sottolinea;

“L’obiettivo di una forma di vita politica della società, nella quale le autorità, i loro organi e i loro atti sono eletti, sono formati e sono indirizzati esclusivamente dalla nazione russa in tutta la sua multiformità e integrità. Sicché si può parlare di una Russia “definitivamente consapevole del suo posto nel mondo” (Limes n.4/2007).
La sovranità non intesa come una sorta di retaggio passatista o revanscismo autoritario, bensì come il più legittimo e valido mezzo per ritornare padroni del proprio destino, nell’epoca della globalizzazione, sotto il profilo politico, economico, culturale e spirituale. E nella storia della Russia la proiezione nel destino costituisce un formidabile veicolo identitario.

Il senso dello Stato e della Nazione si legittima nell’esistenza di un’idea guida, di una missione che travalica il contingente e attrae il futuro. Un’ideocrazia moderna anima oggi i gruppi e i movimenti politici e culturali che ruotano intorno al potere e che a vari livelli ed intensità lo influenzano o lo indirizzano. L’ideocrazia della potenza russa cerca di coniugare tradizione e modernità come è nelle corde dei grandi popoli che si sono imposti nella storia. Rivendica una propria originalità sulla base della integrità territoriale, della centralizzazione e soprattutto statalizzazione del potere e del peso effettivo e simbolico di una forte personalità. Così, a partire da questi tre elementi di fondo (semplificando), si sviluppa un nuovo progetto di rinascita nazionale che si immagina rivolto a tutte le genti della sterminata esperienza imperiale e storica zarista-sovietica. Non ci sono standard di civiltà cui omologarsi, ma un ideale metastorico da coltivare. Il politologo Maler lo precisa efficacemente:

“La Russia si è sempre affermata come portatrice di qualche progetto metastorico che le ha permesso di mantenere il gigantesco territorio di tutta l’Eurasia settentrionale e con alterne fortune di realizzare un proprio controllo geopolitico per tutto il mondo. Un paese confinante con la Norvegia e la Corea non può permettersi di trasformarsi in una riserva geografica” (Limes n.4/2007).

Il dibattito sulla proiezione della Russia e di un certo suo modello nella storia attraversa diverse correnti di pensiero e di rielaborazione politico-filosofica, con gli inevitabili riflessi geopolitici. A partire da un assunto: la Russia vive nella storia e la storia vive nella Russia. La geopolitica russa si caratterizza per diverse tendenze, tuttavia riconducibili ai tre principali filoni degli occidentalisti, degli slavofili e degli eurasisti. Al variare delle vicende storiche esse hanno pesato alternativamente in vari gradi e forme. Oggi si dibatte, anche all’interno stesso della Russia, su quale corrente sia preponderante. E qui, dunque, occorre ribadire come Putin, Medvedev e le nomenclature non siano da inquadrare sotto il profilo di una classe di potere votata al business energetico, con qualche venatura ortodossa, presa da fobie di accerchiamento, chiusa nella sua autoreferenzialità.
Dietro c’è di più. Gli ambienti culturali, militari e diplomatici si caratterizzano per figure oscillanti tra le varie correnti, che a loro volta si connotano per varie sfumature.
Il rifiuto e la repulsione antiliberale ha messo alla porta buona parte della rappresentanza affaristico-politica dell’immediato dopo Urss. Gli oligarchi di stampo occidentale tramano solo da Londra e altrove ma non più a Mosca. I personaggi e i partiti neofiti del liberalismo politico-economico tout-court e riconducibili all’eredità esterofila del tipo Pietro il Grande oggi in stile fortemente global, molto foraggiati e preparati dai centri di destabilizzazione in stile Freedom House, hanno la strada sbarrata. Certo, una certa elite borghese, quella legata al mondo della finanza e del lusso, ha messo le radici soprattutto in taluni quartieri e circoli moscoviti e pietroburghesi. Tuttavia, seppure consideratone il peso e i mezzi relativi ad industrie e ong, ricondotta alla complessità del territorio e della popolazione della Federazione Russa, essa ne occupa una ridottissima fetta senza neanche molte simpatie. Ebbene, nelle gerarchie politico-intellettuali che contano, il peso degli anni “all’occidentale”, quelli dell’umiliazione, non può non essere ancora oggi rivissuto come un pericolo sempre in agguato che si incarna nelle diverse formazioni liberal-democratiche dove dall’estero (o da qualche residuo finanziatore interno) affluiscono i soldi delle varie lobbie. Si spiega in questo senso perché Putin abbia parlato di avvoltoi. E allora, come aprirsi ad una più ampia e plurale rappresentanza partitica quando poi questa, retta in modo evidente secondo i criteri del “soft power”, porterebbe ad una nuova politica di rapina delle ricchezze della nazione, ne minerebbe l’apparato strategico-militare, ne svilirebbe il ruolo di potenza parallelamente all’azione disgregatrice delle frontiere (si pensi all’Ucraina, alla Georgia, al Caucaso e al terrorismo) e trasferirebbe un “american way of life” antitetico al tessuto culturale e sociale della Russia? Da qui la deduzione che se tutto ciò significa non fare gli interessi storici del Paese ma anzi quelli progettati dai nemici, per esempio da Brzezinski, il confronto e le soluzioni sul nuovo “che fare?” russo ammetteranno solo quanti hanno intenzione di operare nell’ottica della “democrazia sovrana”. Una percorso democratico proprio ed originale dove non sono ammessi soldi e strumenti per i referenti interni dell’atlantismo, perché la Russia non è Occidente. Pur constatando, tuttavia, l’evidente assenza di un indirizzo occidentalista, parimenti non si escluda la presenza di elementi riconducibili ad una certa corrente liberale che permane in taluni settori e prova a pesare su determinate decisioni.
Nel tentativo di inquadrare a più ampio raggio la prospettiva di azione geopolitica russa alcuni riducono la valutazione alla prevalenza della componente slavofila che, ad esempio, si manifesterebbe nel caso del sostegno alla Serbia e ai ricostituiti rapporti preferenziali con la Chiesa ortodossa, nonché ad un certo razzismo verso componenti della Federazione ritenute “estranee”. Da qui, dunque, si starebbe portando avanti una fase di arretramento dall’impero allo Stato-nazione, trainato da un nazionalismo russo esclusivista, ma incline a simpatie panslaviste, che vorrebbe chiudere con l’esperienza della convivenza multietnica e multiconfessionale imperiale. Il panslavismo non è un fattore inesistente oggi come ieri, anzi ha caratterizzato molto la politica estera della Russia.
Il binomio panslavismo-ortodossia aveva sorretto le ambizioni zariste nei Balcani e nel Mediterraneo, aveva delineato il profilo di un grande e naturale protettore dei popoli slavi, pronto a sostenere le rivendicazioni di quelli in rivolta conto l’impero ottomano. Fu anche, per certi aspetti, un residuo collante del post-Urss, come nei sogni dell’ “Unione slava” – Russia, Bielorussia, Ucraina – riferibili ad Aleksandr Solgenitsin, l’intellettuale che riconosce oggi un nuovo cammino della Santa Madre Russia.
Premesso ciò, ci sono alcuni elementi che avvicinano la condotta di questi anni, sviluppata nell’arcipelago dei gruppi neoconservatori, a quella eurasista, riconducibile al modello di “Rivoluzione conservatrice” che si elabora di continuo nel corso della storia russa. Tant’è, che tra i sostenitori dichiarati di Putin e della sua politica sono riscontrabili aspetti che riconducono al comune denominatore dell’eurasismo. Ciò, al di là del fatto (appunto) che Putin, il suo successore e gli “oligarchi” non siano prettamente degli ideologi, quanto piuttosto abbiano dietro un apparato politico-culturale che elabora i progetti del Paese. Nell’approccio a tale ordine di cose è utile mettere completamente da parte le categorie abusatissime destra-sinistra, onde evitare il rischio di un panorama deformato.
A tal proposito si può avere in considerazione la visione neoimperiale del segretario del Partito Comunista Russo, Gennadij Zjuganov, racchiusa nel suo saggio “Stato e Potenza”, il quale richiama all’impegno di unire tutte le forze politiche che operino per il mantenimento ed il rilancio della piattaforma imperiale russa secondo una nuova logica di potenza.

L’eurasismo vanta un insieme di movimenti e personaggi che cercano di dare una maggiore organizzazione e struttura all’ideale di un unicum europeo fino a Vladivistock, come evidenzia un intellettuale di primo piano su questo fronte, Alexander Dugin. Il termine Eurasia riecheggia anche nei discorsi di ministri quali Lavrov e più argomentatamente in quelli di diplomatici e pensatori dalle parti del Cremlino. L’Eurasia come entità naturale geografica e politica da edificare posta a cavallo tra Occidente e Oriente (se ricorriamo a categorie classiche non sempre pertinenti). Nella dimensione russa essa vuol dire il superamento del vecchio e di un certo nuovo nazionalismo russo nonché del panslavismo, nell’ottica di una sintesi delle genti slavo-germaniche su di un versante e di quelle turco-mongole sull’altro, ponendosi oltre i contrasti e le antitesi del passato.
I russi in questi anni hanno dibattuto molto circa progettualità e mezzi per un’alternativa storica che andasse nella direzione di una contrapposizione all’atlantismo e di creazione di un sistema multipolare. Il multipolarismo come una delle chiavi di volta. Putin ne conferma le intenzioni. A Monaco, il 10 febbraio 2007, nel suo discorso che non è un discorso qualunque, in occasione della 43esima “Conferenza sulla sicurezza” egli ribadiva l’attenzione della Russia al mondo e, reclamando per il suo Paese l’attenzione del mondo, precisava:
“Io ritengo che il mondo unipolare non sia solo inaccettabile ma anche impossibile nel mondo attuale. E non solo perché se a guidare il mondo di oggi – e soprattutto di oggi – ci fosse un’unica potenza le risorse militari, politiche ed economiche non sarebbero sufficienti. Ancora più importante è il fatto che il modello stesso è difettoso, perché alla sua base non ci sono e non ci possono essere i principi morali della civiltà moderna. Inoltre, ciò che ora sta accadendo nel mondo è la conseguenza del tentativo di introdurre nelle relazioni internazionali proprio questo concetto di mondo unipolare. E qual è il risultato? Le azioni unilaterali e spesso illegittime non hanno risolto alcun problema. Inoltre, hanno generato nuove tragedie umanitarie e nuovi focolai di tensione”.
E dopo aver denunciato “un uso quasi incontenibile e ipertrofico della forza negli affari internazionali”, osservava “un disprezzo sempre maggiore dei principi basilari del diritto internazionale. E le norme legali indipendenti si stanno di fatto sempre più avvicinando al sistema legale di un unico Stato, e precisamente gli Stati Uniti d’America, i quali hanno varcato i propri confini nazionali in tutte le sfere: economica, politica e umanitaria, e si sono imposti sugli altri Stati. A chi va bene questo? A chi va bene? “.
E ancora l’indice puntato contro le manovre dell’atlantismo: “Penso che sia ovvio che l’espansione della Nato non ha niente a che fare con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di rendere più sicura l’Europa. Al contrario, rappresenta un grave fattore di provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi si sta svolgendo questa espansione?”
Negli ambienti russi, pur con una forte inclinazione al pragmatismo e con una spinta inversa a quella forzata dell’unipolarismo ma senza cercare lo scontro frontale, si immagina la combinazione dell’unificazione strategica delle grandi aree continentali con il sistema multidimensionale delle autonomie nazionali, culturali ed economiche. Nella consapevolezza che la vecchia forma dello Stato-Nazione non può essere strategicamente adeguata di fronte alle nuove complessità globali. In gioco c’è anche il fondamentale aspetto identitario e culturale, che ad un livello unipolare è soffocato, sterilizzato.
Il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov, intervenendo all’assemblea del “Consiglio per la Politica Estera e la Difesa” il 17 marzo 2007, evidenziava la necessità di una diplomazia di rete, cioè un’orizzontalità delle relazioni internazionali che sopperisca alle insufficienze di una struttura gerarchica, anche sul piano di “civiltà”.
“La Russia si oppone ai tentativi che mirano a dividere il mondo tra la cosiddetta “umanità civilizzata” e tutti gli altri. Questo condurrebbe ad una catastrofe globale che solo l’inerzia intellettuale e i pregiudizi da Guerra Fredda possono suggerire… Noi non ci lasceremo trascinare in uno scontro con il mondo islamico”.
Ed ecco una differenziale di fondo nell’analisi e nella prospettiva: ”Ritengo che il paradigma delle relazioni internazionali contemporanee sia determinato proprio dalla competizione nel suo senso più ampio, soprattutto quando coinvolge la scelta di valori e i modelli di sviluppo. Tutto questo non implica affatto uno scontro. La novità della situazione consiste nel fatto che l’Occidente sta perdendo il suo monopolio sui processi di globalizzazione. Evidentemente da questo derivano i tentativi di presentare ciò che sta accadendo come una minaccia all’Occidente, ai suoi valori e al suo stile di vita. Nessun tipo di disciplina di blocco o ideologica funziona più automaticamente, anche se assistiamo a tentativi di rimpiazzarla con la solidarietà di un’unica civiltà contro tutte le altre”.

L’affermazione di un modello multipolare in quanto imperativo della politica estera russa passa per un sistema di alleanze strategiche. Si possono individuare delle categorie di partner sulla base di tale assunto (riferendoci anche alle indicazioni di Dugin).
Una prima categoria è quella delle formazioni regionali, che siano Paesi o gruppi di Paesi, con cui sussiste una certa complementarietà simmetrica rispetto alla Russia: Ue, Giappone, Iran e India. Caduto il pericolo sovietico, questi attori non hanno più motivo di soggiacere alla logica di un pericolo incombente né a quella di un’inevitabile saldatura agli Stati Uniti (per quanto riguarda Ue e Giappone), per cui dovrebbero costituire gli attori principali del maturando ordine multipolare. A loro la Russia offre risorse, potenziale strategico, armamenti e l’appoggio per un maggiore peso politico; di riflesso essa riceve l’indispensabile supporto economico e tecnologico dall’Europa e dal Giappone e una partnership politico-strategico al sud con Iran e India.

Una seconda categoria di attori, non automaticamente complementari ma validi intermediari, è quella della Cina, del Pakistan e dei Paesi arabi. Del resto, un rafforzarsi del legame con quelli della prima categoria determina un rafforzarsi dei rivali regionali di quelli della seconda.Sul versante russo-cinese, ci sono molte questioni sul tavolo e i russi mostrano una pragmatica diffidenza, anche in considerazione del pericolo demografico giallo che preme sulle zone poco popolate della Siberia e della esigua offerta cinese sul piano tecnologico e finanziario. E’ ovvio che nei confronti di tali partner la Russia non può immaginare un’azione imperiale di inclusione, ma lo scopo è di non lasciare che cadano nella rete unipolare americanocentrica. E in effetti, Mosca teme “Chimerica”, vale a dire il delinearsi di una più stretta cooperazione tra Cina e Usa, specie col consolidarsi della “dottrina Zoellick”, in base alla quale il gigante cinese deve fungere da “stakeholder” di supporto all’ordine mondiale della globalizzazione a guida americana.
Una terza categoria è quella dei Paesi classificabili come “minori”, dato che non hanno i mezzi per emergere in maniera rilevante sul piano delle decisioni internazionali. Sicché la Russia applica una politica differenziata in combinazione con le altre potenze del blocco eurasiatico, tentando di sostenere un rafforzamento del Giappone nell’area del Pacifico, auspicando un maggiore ruolo dell’Europa nel mondo arabo e in Africa.
Una quarta categoria, Usa e i Paesi del continente americano.
Premesso che con gli Usa la partita si gioca su più livelli, i russi lavorano ai fianchi nel tentativo di indurre al fallimento la tentazione unipolare. In questo senso operano per limitare gli interessi geopolitici americani nel “cortile di casa”, come dimostra l’asse realizzato col Venezuela bolivariano, che è frutto anche dell’interesse a sostenere le tendenze antiamericane che si rinfocolano nella regione centro-sud.

Un altro aspetto cruciale per Mosca è ovviamente quello della Csi (Comunità degli Stati indipendenti). Qui, del resto, si misura la cifra della propensione imperiale della Russia, del suo sapersi rapportare alla questione di frontiere che tali non sono considerate, poiché la Federazione russa necessita della fondamentale integrazione con le repubbliche ex-sovietiche, le quali non possono sfuggire alla sua influenza, tanto più che storicamente ne hanno costituito l’impero.Tutt’oggi ne ereditano strutture vitali nonché un rapporto politico naturale, da considerarsi appunto come una naturale direttrice geopolitica. Ne sono la prova l’Uea (Unione eurasiatica), l’Otsc (Organizzazione del Trattato di Sicurezza collettiva) e la Ceea (Comunità economica euroasiatica). Occorre valutarne l’efficacia, come nel caso della Sco (Shangai Cooperation Organization), cui aderisce anche la Cina, e che risulta essere un nucleo strategico-militare ancora lontano dal poter effettivamente competere con la Nato, anche se è un indice della spinta multipolare in atto. Dunque, nonostante le pesanti influenze cinesi, il fattore geopolitico qui è fortemente eurasiatico. Teoricamente il processo dovrebbe condensarsi in una trasformazione dalla Csi all’Unione Eurasiatica su di un piano multidimensionale: politico, economico, strategico, culturale, informatico e linguistico. Questa implicherebbe un nuovo sistema amministrativo con un passaggio da vecchi a nuovi soggetti, nell’idea di andare oltre una semplice associazione di Stati o una versione allargata della Federazione Russa.
E allargando un attimo la visuale, è interessante notare come Dugin, nel suo “I principi fondamentali della politica eurasista”, elevando l’eurasismo, sulla base delle radici storiche, a “equilibrio ragionevole tra l’idea nazionale russa e i diritti di numerosi popoli che vivono in Russia e in Eurasia”, sottolinea che “alcuni aspetti precisi dell’eurasismo sono già utilizzati dalle nuove autorità russe, orientate verso una soluzione creativa dei complessi problemi storici che la Russia deve affrontare nel nuovo secolo… Il processo d’integrazione nella CSI… i passi della nuova politica estera della Federazione Russa verso l’Europa, il Giappone, l’Iran e i paesi del Vicino Oriente, la creazione di un sistema di distretti federali, il rinforzo della linea verticale del potere, l’indebolimento dei clan oligarchici, la politica del patriottismo e del senso dello Stato… sono tutti punti importanti, essenziali dell’eurasismo”.
Sempre Dugin, però, precisa come quella attuale sia ancora una fase di passaggio, giacché “questi elementi (dell’eurasismo) sono mescolati al permanere per inerzia di tendenze proprie di altri modelli (liberaldemocratico e sovietico)”. Ribadendo che si tratta di un processo evolutivo graduale, egli scrive che “appare perfettamente chiaro che l’eurasismo ascende con fermezza verso il suo zenit, mentre gli altri due modelli conducono unicamente una battaglia di retroguardia”.

L’impero russo ha un’arma strategica fondamentale attraverso cui sta rientrando nel novero degli attori primari sullo scacchiere globale: l’energia. Il potere geoenergetico come efficace vettore di crescita delle risorse finanziarie, di modernizzazione e di influenza nelle varie aree internazionali. Esso permette di incidere sulle sorti delle Repubbliche centroasiatiche, di consolidare la Russia come indispensabile referente per i Paesi europei, di scongiurare nuove “rivoluzioni colorate” ai propri confini, di sottrarsi al necessario passaggio per Washington per quanto concerne le relazioni internazionali. E’ un punto di forza concorrenziale, anche contro i tentativi di respingere la Russia nel proprio “guscio” regionale.
L’energia per produrre diplomazia. La Federazione russa è il principale esportatore mondiale di petrolio e di gas; il 63% delle sue esportazioni è dato proprio dalle commodities. Il 34% dal petrolio, il 13% dal gas naturale. Le riserve petrolifere dovrebbero aggirarsi intorno ai 60 miliardi di barili, premesso che il territorio siberiano è non ancora interamente sondato, mentre quelle di gas sono il 26% di quelle mondiali. I parametri macroeconomici russi registrano un forte segnale positivo. Al notevole volume delle esportazioni si affiancano i crescenti investimenti stranieri. Il Pil è in aumento del 7.3%, la produzione industriale del 7.7% (si consideri anche il settore manifatturiero in crescita più di quello energetico), la bilancia commerciale è in saldo attivo di 61 miliardi di dollari, il flusso di capitali è di 67.1 ( tra entrate e uscite), le riserve valutarie oltre i 416.
La scelta strategica di Mosca è la nazionalizzazione del settore strategico, un atto rivoluzionario in tempi di globalizzazione, frutto dell’annunciato ritorno alla sovranità. Nel 2005, per esempio, l’azienda di Stato Rosneft ha acquisito gli asset della Yukos, la Gazprom ha assorbito la Sibneft.
La Gazprom è “un’istituzione” imperiale: detiene il monopolio delle risorse, della produzione e dei gasdotti; ha il primato mondiale nella produzione di gas ed è la terza società per capitalizzazione; ricopre il 25% del fabbisogno energetico di 15 membri dell’Ue e l’80% di quello delle Repubbliche ex-sovietiche baltiche e centroasiatiche. Gazprom, dunque la Russia. Il suo peso è decisivo tanto più se si considera che oggi le compagnie petrolifere multinazionali gestiscono solo il 20% delle riserve mondiali di petrolio e gas a fronte dell’80% controllato dai Paesi produttori, il che lascia intendere quanto in futuro conterà più la politica del mercato e l’Opec stesso andrebbe superato.
Quindi, Mosca vuole impiantare una rete geoenergetica di interdipendenza relativamente alle varie aree geografiche. E relativamente ai propri interessi nazionali, nel senso di una maggiore stabilità politica e crescita economica, di un miglioramento degli standard quantitativi e qualitativi di vita del popolo, di una riduzione dell’indebitamento (ha già chiuso i conti con il Fmi), di un controllo dell’inflazione. Come sottolineato dal ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov, la Russia applica una politica di controllo statale delle risorse energetiche che controbilancia la concentrazione di alta tecnologia nelle mani delle grosse compagnie transazionali private. La politica di isolazionismo antirussa di matrice statunitense cosi come una nuova politica di potenza della Russia stessa passano per strumenti imprescindibili che simboleggiano il collegamento che intercorre tra i vari soggetti sulla scena: gli oleodotti e i gasdotti. Il loro percorso, di fatti, di quelli che ci sono e soprattutto di quelli che vedranno la luce, disegnano abbastanza chiaramente le direttrici di alleanze o comunque di convergenze che maturano tra i vari Paesi, e la stessa Europa ne è decisamente coinvolta. Vi è una continua oscillazione tra instabilità politica e costruzione di nuovi oleodotti.
La direzione occidentale a guida statunitense sin qui tenuta ha mirato ad evitare percorsi che toccassero i territori russi, con l’obiettivo palese di mettere fuori gioco la Russia mediante il controllo dei corridoi strategici tra Asia centrale ed Europa da parte delle multinazionali angloamericane e mediante un processo di rafforzamento e assoggettamento dei Paesi ex-sovietici, così da sottrarre questi al loro storico ruolo di interlocutori di Mosca. Tra i vari progetti, possono individuarsene alcuni significativi a seconda delle aree geografiche, come nel caso dell’Europa, quali i gasdotti Blue Stream, North Stream e South Stream.
L’arma degli idrocarburi va comunque analizzata alla luce di tutta una serie di problematiche e dinamiche , quali la costruzione di numerose infrastrutture, la tenuta dei giacimenti già sfruttati e la ricerca di nuovi, l’incognita del peak-oil, il livello della domanda interna e quello della domanda mondiale (il fabbisogno è in drastica ascesa).
La questione energetica non si esaurisce tra gas e petrolio, anzi la Russia è impegnata nella riorganizzazione della produzione. Ad esempio, prevede sopperire al proprio fabbisogno di energia elettrica per il 50% mediante il ricorso all’idroelettrico (grandi investimenti in Siberia), al carbone pulito e al nucleare (anche per limitare l’uso del gas naturale, dovendo ottemperare agli accordi di fornitura stipulati all’estero). Il nucleare è un discorso complesso e di sicuro una prospettiva fondamentale. Basta accennare che la Russia è uno dei grandi esportatori di combustibile nucleare, con riserve di uranio pari al 5% di quelle mondiali, e rifornisce l’Europa per un terzo del suo fabbisogno ricevendo in cambio l’opera di “bonifica” della parte in dismissione dell’arsenale nucleare. E poi ha dato l’avvio alla costruzione di impianti di nucleare civile su vasta scala, per esempio in Cina, India, Iran, Sud Africa, Argentina, ma anche Lituania, Slovacchia, Bulgaria ecc.
Il rilancio come potenza nucleare civile (in questo caso) si esplicita nel programma di “Sviluppo del complesso energetico e industriale nucleare della Russia in 2007-2010 e in prospettiva fino al 2015”, il quale dovrebbe portare, oltre al rimodernamento delle centrali già esistenti, all’attivazione di 10 nuove unità ad alto potenziale e alla fabbricazione di nuovi reattori di terza generazione. Dei precisi provvedimenti, che hanno anche ridisegnato le funzioni dell’Agenzia federale nucleare Rosatom, consolidano (anche in questo caso) una forte presenza statale nell’intero settore nucleare, perché ovviamente ritenuto strategico.

La direzione politica sin qui tenuta da Vladimir Putin ha imposto un cambio di marcia ancora in fieri mediante un abile pragmatismo, provando a valorizzare le sue risorse nei vari ambiti, cioè non solo in quello delle commodities. Ciò vuol dire anche una fase di riassestamento interno a fronte di non pochi delicati fattori. Tra i quali si può evidenziare il ruolo della classe di oligarchi che aveva privatizzato risorse e imprese e volentieri fuggiva l’imposizione fiscale (simbolico, in questo senso, è stato l’affaire Yukos); il ruolo di un apparato pubblico elefantiaco eppure privatizzato da pochi nei profitti, sorretto da una corruzione capace di incidere sui flussi della spesa pubblica. Da rilevare, poi, che il malcontento montante nel dopo guerra fredda in buona parte aveva la testa rivolta all’indietro, nutrendosi di rimpianto per il soviet, propedeutico ad un vicolo cieco senza futuro. Sembrava che né la popolazione, né la burocrazia né gli oligarchi fossero disponibili a forme di compromesso. Le lentezze e le chiusure del sistema Paese risentono ancora oggi di storture che vengono da lontano. Tuttavia, l’azione-reazione del Cremlino ha una propria legittimazione a fronte dei tentativi di quanti pensavano di modellare il gigante russo nelle forme o di un emirato o della Nigeria. Dunque, la politica ha ribadito il suo carattere gestionale anche nei confronti del mondo degli affari, in cui il privato è ammesso ma all’interno di una disciplina fiscale e a patto di non travalicare i propri confini. Questo segna una differenza strutturale: sono ammessi in un sistema di regole i privati, oligarchi compresi, che operino nella visione e sulla linea dello Stato, mentre quanti perseverano nella condotta di un business svincolato da responsabilità sono spinti fuori. Londoningrad è così l’anti-Mosca.
Il settore delle corporazioni russe viene consolidato soprattutto con un interventismo statale (è stato lanciato pure un vasto programma militare di ripotenziamento tecnologico e razionalizzazione dell’esercito). Tutti i campi legati alla sfera strategica, come il complesso militare e industriale, l’educazione, la sicurezza, la sanità… sono controllati dallo Stato. In parallelo, la piccola e media produzione, il settore dei servizi, l’industria del divertimento sono legati all’iniziativa privata (a meno di conflittualità con le linee guida).
La rilevanza geopolitica del nuovo corso della Russia si caratterizza anche per l’essere una precisa controtendenza rispetto a quella che è stata la graduale destrutturazione del Patto di Varsavia, all’interno del quale risiede lo spazio eurasiatico. Se, infatti, sotto il profilo ideologico esso aveva i connotati di un’economia socialista e una base filosofica marxista, sotto il profilo geopolitico costituiva un’aggregazione continentale che incarnava la medesima funzione strategica dell’impero zarista. Una dimensione, quindi, rossa all’esterno e bianca all’interno, nel suo nocciolo. Per questo ritorno imperiale russo non può non valere tale funzione strategica. Ecco perché l’integrazione nell’ambito Csi, nei termini di una sintesi eurasiatica con i vari soggetti che sono sorti, propende verso una più profonda dimensione politica, almeno nelle intenzioni del Cremlino. Ecco perché non può sussistere una forma rozza di nazionalismo, liberale o conservatore che sia. I grandi spazi formano gli imperi. Bloccare la fase disgregatrice è automaticamente contrapporsi all’atlantismo, che Mosca avverte tanto dall’Est Europa all’Afghanistan.

Vale a proposito la complessa questione dello scudo spaziale, rispetto alla quale ci limitiamo a riportare le parole del ministro Lavrov nel già citato discorso:

“Ci opponiamo a giochi strategici in Europa che abbiano come obiettivo quello di creare, a partire dal nulla, uno scontro potenziale e di plasmare una politica europea basata sul principio nostro/loro. Il progetto degli Stati Uniti di dispiegare in Europa elementi del loro sistema di difesa antimissile può portare solo a questo. Possiamo solo considerarlo una provocazione sula scala della politica europea e globale. Tanto più che questo progetto unilaterale ha un’alternativa collettiva sotto forma di sistema di difesa antimissile di teatro in Europa, con la partecipazione della Nato e della Russia. L’approccio collettivo eliminerebbe il problema. Il dispiegamento del sistema antimissile americano in Europa è inaccettabile, questo è il problema. E inciderà sui nostri rapporti con la Nato. Se l’Alleanza è inadeguata come organizzazione di sicurezza collettiva e si trasforma in un paravento per delle misure unilaterali pregiudizievoli per la sicurezza della Russia, che senso possono avere le nostre relazioni con essa? Qual è il valore aggiunto del Consiglio Russia-Nato? I nuovi missili in Europa sono un dèjà vu con conseguenze piuttosto prevedibili del tipo dei primi anni Ottanta”.
Vale la massima di Halford Mackinder:

“Chi domina l’Europa orientale domina l’Heart-land; chi domina l’Heart-land domina l’Eurasia; chi domina l’Eurasia domina il mondo”.

“Washington cambia strategia e coinvolge la NATO” da Rinascita

settembre 21, 2009

La Casa Bianca rinuncerà ai piani dell’amministrazione Bush per il dispiegamento in Polonia e Repubblica ceca delle basi per lo scudo antimissile, ma utilizzerà dei sistemi già collaudati in ambito Nato coinvolgendo così l’Europa nelle strategie nordamericane.

A dichiarare quanto sopra è stato il presidente Usa, Barack Obama confermando un “nuovo approccio” da parte degli Stati Uniti nel sistema di difesa anti-missilistica e non mancando di sottolineare che l’Iran resta pur sempre “una grave minaccia” alla sicurezza degli Usa e alleati.

“Questo nuovo approccio fornirà presto dei risultati, basati su sistemi collaudati e offrirà una maggiore capacità di difesa contro la minaccia di attacchi missilistici rispetto al programma di difesa europeo del 2007”, ha osservato Obama in una nota.

Il presidente Usa ha poi sottolineato che il nuovo piano antimissile userà tecnologie di provata affidabilità per rafforzare la protezione degli Usa e alleati. In questo modo la Russia continuerà ad essere il bersaglio preferito dei progetti di accerchiamento e contenimento degli Stati Uniti. Poche ore prima le agenzie di stampa avevano battuto le dichiarazioni di un portavoce del Pentagono confermando che Washington ha in programma “un cambiamento rilevante ed un miglioramento del sistema europeo di difesa missilistica”. Ma era stato poi precisato, sempre dalla stessa fonte, che il sistema dovrà essere più “versatile”. Una dichiarazione sibillina che dovrebbe nascondere ulteriori sviluppi poco rassicuranti.

Dal canto suo Praga ha dato delle ulteriori conferme. Anche lì un portavoce ha confermato che il primo ministro, Jan Fischer, ed il presidente Obama hanno parlato per telefono la notte scorsa, poco dopo la mezzanotte.“Barack Obama ha informato il premier Fischer della nuova posizione dell’amministrazione americana riguardo allo scudo antimissile in Europa centrale”, ha reso noto il portavoce Roman Prorok. A fargli eco è stato poi il ministro degli esteri della Repubblica Ceca, Jan Kohout, ha precisato che la revisione del piano per lo scudo Usa in Europa “non è in alcun modo una marcia indietro sulla difesa missilistica” e che “al contrario, il piano rafforzerà e renderà più fluida, la protezione dell’intera Europa, in particolare contro i missili a breve e medio raggio”. Kohout ha discusso con il sottosegretario della difesa per le questioni politiche Usa, Michele Flournoy, e con il sottosegretario per il controllo degli armamenti, Ellen Tauscher.

Il capo della diplomazia di Praga ha anche reso noto che il nuovo sistema di difesa missilistico si svolgerà nel quadro della Nato e non attraverso accordi bilaterali come quello che aveva sancito la concessione della base in cui avrebbe dovuto essere dislocato il radar nella Repubblica Ceca. In questo modo Washington potrà coinvolgere di più gli Stati membri dell’Alleanza Atlantica non soltanto sul piano militare ma anche sul piano economico evitando così di dover finanziare in prima persona il progetto in un momento ancora molto difficile per l’economia statunitense.

Anche dalla Polonia comunque sono giunte notizie poco rassicuranti che hanno dato conferma alle parole di Obama. “La decisione potrà forse essere differente da quella che molti si aspettano”, ha dichiarato senza mezzi termini il ministro degli Esteri, Radoslaw Sikorski. Il ministro polacco ha poi reso noto che presto avrà un incontro con il segretario di Stato americano, Hillary Rodham Clinton, per discutere del piano. “È una questione sulla quale è in corso un intenso dialogo tra Polonia e Stati Uniti”, ha poi aggiunto, definendo una riunione che si è svolta questa mattina tra le delegazioni americane e polacche come una “preparazione” per questi colloqui.

di Andrea Perrone

“L’Europa ha bisogno di una Russia forte” di Alain de Benoist

settembre 18, 2009

Agitare lo spettro di un’altra guerra fredda ripropone schemi ideologici ormai estinti. Il Vecchio Continente deve anzi puntare a un rapporto più stretto con un Paese che è complementare dal punto di vista economico. Mentre ero a Mosca per un corso all’Università Lomonosov, vari docenti mi dicevano di essere stati colpiti dal fatto che Berlusconi fosse più o meno l’unico capo di governo dell’Unione europea simpatizzante con la Russia nella guerra nell’Ossezia del Sud. C’è un’eccezione italiana nello sguardo europeo sulla Russia?

La Russia è sempre stata vittima di stereotipi. Il marchese de Custine, Hegel, Marx e soprattutto Engels, che nel razzismo antirusso precorreva Hitler, l’hanno costantemente rappresentata come Paese «barbaro» e «prigione di popoli». Eppure la sua potenza era temuta. Nel 1918, il sesto dei quattordici punti del presidente Wilson diceva ingenuamente: «La Russia è troppo grande e troppo omogenea, va ridotta all’altipiano della Russia centrale. Così avremo davanti un foglio bianco».

In epoca comunista, la divisione fra emigrazione e «dissidenti» di qui, «bolscevichi» e «soviet» di là, quasi inibiva lo studio serio della complessità delle tendenze. Come aveva capito Ernst Niekisch, «la storia del Partito comunista russo si può leggere come eterna lotta fra la tendenza sovranista-nazionale e quella cosmopolita» (Natalia Narochnitskaia).

Nel 1945 la fine della Seconda Guerra Mondiale, decisa a Stalingrado e ancor più a Kursk, segnò la vittoria di Stalin e della Russia. Sebbene sia stata anche quella del comunismo, essa fu innanzitutto vista come vittoria russa dall’immensa maggioranza dei russi stessi. E anche per questo il crollo del sistema sovietico ha potuto esser considerato una pagina nera della storia nazionale della Russia anche da tante vittime della repressione di regime.

Dietro la retorica dominante della Guerra fredda (”mondo libero” contro “blocco orientale”), spesso la denuncia del comunismo camuffava l’ostilità per la Russia, preesistente alla rivoluzione bolscevica e sopravvissuta alla disintegrazione dell’Urss. Per Natalia Narochnitskaia combattere il sovietismo era la finta: la posta in gioco era lo «spazio nella successione geopolitica dello Stato storico russo».

L’hanno dimostrato i fatti dopo la caduta del Muro di Berlino. Nel 1991, Gorbaciov aveva accettato l’integrazione nella Nato della Germania riunificata in cambio della promessa di Washington che l’Alleanza atlantica non si sarebbe estesa oltre le frontiere tedesche. Promessa infranta: la «nuova Europa» (centrale e orientale) è presto divenuta perno d’interessi americani. A dissipare le ultime illusioni sono stati il rifiuto della Nato della zona denuclearizzata dall’Artico al Mar Nero proposta dalla Russia, la denuncia unilaterale statunitense del trattato Abm sui missili balistici, i bombardamenti sulla Serbia della Nato nel 1999, l’appoggio dato dal 2003 alle «rivoluzioni colorate» nell’Europa orientale, lo spiegamento di sistemi antimissile americani in Polonia e nella Repubblica Ceca, l’appoggio dal 2005 alla candidatura della Georgia, dei Paesi baltici e dell’Ucraina all’ingresso nella Nato, il sostegno alla proclamazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, poi al presidente georgiano Saakashvili nell’invasione dell’Ossezia del Sud da parte delle sue truppe. Per gli americani lo scopo è sempre lo stesso: evincere la Russia dal Baltico, dal Caspio e dal Mar Nero, negarle accesso all’antico spazio mediterraneo e bizantino, spingere sempre più a est i confini della Nato, controllare il Caucaso e dell’Asia centrale e delle risorse energetiche che passano di lì.

Ma il Cremlino ha reagito. Dopo gli anni neri (1991-1998) del periodo Eltsin, la Russia pare orientata risolutamente verso un mondo multipolare. L’intervento di Vladimir Putin alla Conferenza sulla sicurezza (Monaco, febbraio 2008) ha segnato la svolta. Un’altra è stata la fermezza davanti all’aggressione georgiana, la scorsa estate. Da allora gli Occidentali agitano lo spettro del ritorno alla guerra fredda. Indignati, ripetono la frase di Putin: «La fine dell’Unione Sovietica è la maggiore catastrofe geopolitica del XX secolo». Ma non la citano mai tutta: «La fine dell’Unione Sovietica è la maggiore catastrofe geopolitica del XX secolo. Non ha cuore chi se ne infischia. Non ha cervello chi vuole ricostituirla nello stesso modo di prima» (Komsomolskaia Pravda, 2 febbraio 2000).

In realtà non si torna alla guerra fredda (basata su un clima ideologico estinto), tornano linee di forza storiche e geopolitiche tradizionali. Tentare di contenere, rimuovere o smembrare l’Impero russo è sempre stata la tentazione, spesso messa in pratica, delle potenze occidentali. Ma allora erano le potenze europee, mentre oggi sarebbero soprattutto gli Stati Uniti a giovarsi di sconfitte strategiche russe.

Verso l’Europa spesso i russi provano un senso d’amarezza e umiliazione. Intendono tornare a essere rispettati e considerati. Hanno infatti il diritto d’attendersi dagli europei una politica chiara, non una relazione mediocre appiattita sugli americani.

Mentre l’Europa ha bisogno d’una Russia forte, restituita allo status tradizionale di grande potenza e fattore strutturale nei rapporti internazionali, per salvaguardare l’indipendenza e sfuggire a ogni forma di tutela e ingerenza esterna. Il suo interesse politico e geopolitico è diventare il partner più stretto possibile di una Russia della quale è già complementare economicamente e tecnologicamente. Che ora l’Unione Europea paia andare in senso opposto non toglie nulla all’urgenza d’un’intesa neo-bismarckiana con la Russia. L’Europa si svincoli dall’Occidente e guardi a Est. Se declina la Russia, declina l’Europa.

“La Russia nel XXI Secolo” di Tiberio Graziani

settembre 18, 2009

Nel corso degli ultimi due decenni, la Russia è stata il luogo ove si sono manifestati due eventi geopolitici talmente importanti da condizionare in profondità sia la politica internazionale dell’intero Pianeta sia, sul piano teorico e speculativo, i consueti paradigmi interpretativi utilizzati dagli analisti di questioni geopolitiche e geostrategiche. Ci riferiamo, ovviamente, alla caduta dell’Unione Sovietica ed alla riconfigurazione geopolitica dell’area russa quale elemento costitutivo del nuovo assetto mondiale postunipolare.

Occorre subito segnalare che la ricostruzione-riconfigurazione dello spazio geopolitico russo, avviata da Putin e ora proseguita da Medvedev, ha la peculiarità di essere iniziata in un tempo tutto sommato breve – dopo neanche dieci anni dalla dissoluzione ufficiale della potenza sovietica – se si tiene conto dei lunghi archi temporali tipici dei cicli geopolitici e, soprattutto, del contesto economico, politico e sociale, nonché psicologico, entro il quale la ricostruzione è venuta maturandosi. Tutti ricordiamo il profondo stato di prostrazione in cui era caduta Mosca agli inizi degli anni novanta, e il timore, avanzato dagli osservatori, dai politici e dagli esponenti del mondo finanziario, commerciale ed industriale riguardo al terremoto che il vuoto, prodotto dalla caduta verticale del sistema sovietico, avrebbe potuto produrre su scala mondiale.

Il crollo dell’URSS, come noto, ha permesso il dilagare della potenza d’Oltreoceano nello spazio centroeuropeo, vicinorientale e centroasiatico per tutti gli anni novanta. Tra le tappe più significative della marcia degli USA verso oriente, ricordiamo: la prima guerra del Golfo (1990-1991), l’aggressione alla Serbia (1999) nel quadro della programmata disintegrazione della Confederazione jugoslava, l’occupazione dell’Afghanistan (2002), la devastazione dell’Iraq (2003).

Parallelamente alle azioni belliche, Washington ha condotto l’allargamento della propria sfera d’influenza sul Vecchio Continente mediante l’inclusione nella NATO dei Paesi dell’Europa centrale, membri dell’ex Patto di Varsavia. L’allargamento della NATO inizia, come noto, con l’inclusione di fatto della Germania dell’Est il 3 ottobre 1990, dopo la riunificazione delle due entità germaniche, prosegue il 12 marzo 1999 con quella della Polonia, dell’Ungheria, della Repubblica ceca, e, il 29 marzo 2004, con l’inclusione della Slovacchia, della Romania, della Bulgaria e della Slovenia. All’ex nemico sovietico non viene risparmiato neanche un simbolico, ma geostrategicamente rilevante, colpo: il 29 marzo 2004 entrano nella NATO persino tre ex-Repubbliche Sovietiche, l’Estonia, la Lettonia e la Lituania. Recentemente, il 1 aprile 2009, sono entrate nella NATO anche la Croazia e l’Albania.

L’erosione dell’ “estero vicino” ex sovietico da parte degli USA viene perseguita, nel corso degli anni 2000, anche attraverso la conquista delle cosiddette “società civili” dei paesi che lo compongono. A tale scopo, assistiamo alla messa in atto della strategia delle “rivoluzioni colorate”, il cui fine è insediare governi filo occidentali in Serbia (5 ottobre 2000), in Georgia (“Rivoluzione delle Rose, 2003-2004), in Ucraina (“Rivoluzione arancione”, 2004), in Kirghizistan (“Rivoluzione dei Tulipani”, 2005). La conquista delle società civili di alcuni paesi, come la Georgia e l’Ucraina, teorizzata da think tank come l’Albert Einstein Institution sulla base delle indicazioni fornite dagli studi del suo fondatore, lo statunitense Gene Sharp, pare sia stata finanziata dal noto filantropo e speculatore George Soros, mentore dell’attuale presidente Obama. Per un lungo decennio è sembrato che a dettare le regole della politica e dell’economia mondiali fosse il solo sistema occidentale guidato dagli USA. Per tutti gli anni novanta, infatti, gli Stati Uniti, l’hyperpuissance, come ebbe a definirli, con motivata preoccupazione, un ministro degli esteri francese, Hubert Védrine, o la “nazione necessaria”, secondo la nota espressione, messianica ed arrogante ad un tempo, del segretario di stato Madeleine Albright e del suo presidente Clinton, hanno imposto il proprio approccio unilaterale in quasi tutte le iniziative politiche, economiche e militari del Pianeta.

L’Europa, per la prima volta nella sua storia, è completamente ostaggio di una alleanza egemonica extracontinentale. Il rientro nel Comando militare integrato della NATO (aprile 2009) della Francia di Sarkozy costituisce, in ordine di tempo, l’ultimo atto di subordinazione europeo agli interessi di Washington.

Ma con l’arrivo di Putin alla presidenza della Federazione russa il quadro internazionale comincia a cambiare.

Il primo episodio che può essere valutato come l’inizio della riaffermazione della nuova Russia nell’agone internazionale è forse quello collegato alle tensioni che emergono in seno al sistema occidentale, in margine all’aggressione militare degli USA all’Iraq di Saddam Hussein. Nel 2003, Parigi e Berlino si oppongono ai voleri di Washington: Mosca gioca di sponda, e, per un istante, l’asse Parigi-Berlino-Mosca- – sembra essere una realistica alternativa all’unipolarismo statunitense. Da parte russa, la tensione provocata in campo occidentale è un primo chiaro successo del nuovo corso avviato in politica estera dal giovane ex agente del KGB. La Russia, dopo lo smacco subito in Serbia, inizia a reagire.

Nel volgere di meno di un decennio, la Russia ha riconfermato il suo ruolo di stato pivot dell’intero spazio eurasiatico. Ciò è stato possibile, certamente, grazie a due rilevanti fattori geoeconomici: le concomitanti crescite economiche della Cina e dell’India. I peculiari sviluppi socio-economici di questi due Paesi asiatici si sono integrati coerentemente nelle strategie dei rispettivi governi, desiderosi di espandere congiuntamente la sfera di influenza sino-indiana in Eurasia. Beijing e Nuova Delhi, consapevoli di poter concorrere alla realizzazione di un futuro sistema multipolare, e di contare successivamente su una Russia forte, quale pilastro fondamentale di ogni intesa eurasiatica, si sono ben guardate, nel periodo più buio della recente storia russa, (l’era el’ciniana), dall’umiliare Mosca.

La piena e veloce riaffermazione della Russia nello scacchiere mondiale, si deve, però, alle molteplici iniziative messe in campo da Vladimir Putin. L’ex primo ministro di El’cin nel corso di due mandati presidenziali riesce, sul fronte interno, a riportare sotto il controllo dello stato russo le industrie strategiche del paese, debellare la criminalità organizzata, contenere con fermezza il secessionismo ceceno e daghestano, infondere fiducia alla popolazione; mentre sul fronte esterno, inizia a tessere una rete di relazioni internazionali con le repubbliche centroasiatiche, inclini a seguire la sirena statunitense, e, soprattutto, riannoda i legami con la Cina popolare. Mosca non trascura neanche il versante delle molteplici identità culturali e religiose delle popolazioni della massa eurasiatica.
Infatti, nell’ambito di una logica eurasiatica, sensibile all’incontro tra le variegate civiltà del Continente, e in netta opposizione alla strategia islamofoba degli anglostatunitensi, Putin presenta alla Conferenza islamica di Kuala Lampur del 2003 la Russia come “difensore storico dell’Islam”. Tale significativa dichiarazione, che tiene certamente conto del fatto che l’Islam è la seconda religione della Federazione russa (nonché la sola in espansione in area russa), è il primo passo ufficiale che porterà la Russia a divenire membro osservatore dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC). Il tentativo statunitense di provocare ed alimentare, a partire dalle tensioni identitarie locali, “archi di crisi” lungo frontiere etnico-religiose, viene pertanto tenuto sotto controllo dalla lungimiranza di Mosca.

Sul piano geostrategico il Cremlino, consapevole delle mire statunitensi nell’Asia Centrale, rafforza l’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai (SCO) della quale è membro anche la Cina popolare. Lo scopo è la stabilizzazione dell’intera area considerata altamente insicura dagli strateghi di Washington che la definiscono come il ventre molle dell’Eurasia. La dirigenza russa, inoltre, contribuisce, nel 2002, all’istituzione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva dei paesi della Confederazione degli Stati Indipendenti (CSTO). Le due organizzazioni eurasiatiche dimostrano al mondo intero – e principalmente agli USA – che i problemi in materia di sicurezza e di difesa dell’area sono ben assicurati dai paesi interessati e che, pertanto, non c’è alcun bisogno di supervisori o aiuti provenienti dall’Occidente, tanto meno di presidi della NATO. Grazie al risveglio dell’Orso russo, la marcia degli USA in Asia Centrale sembra, per il momento, terminata.

Un nuovo ciclo geopolitico si profila all’orizzonte.

Presentazione di Tiberio Graziani a Potere globale. Il Ritorno della Russia sulla Scena Internazionale di Alessandro Lattanzio, Fuoco Edizioni